Domenico Cimarosa

Domenico Cimarosa, I due Baroni di rocca azzurra, li due baroni

Erma di Domenico Cimarosa
Antonio Canova, 1822 – Collezione privata

 
Li due Baroni

Partitura autografa, microfilmatura su nostra richiesta; I-Nc, Rari: 1.1.3, 4.
L’Intermezzo in Musica a 5 voci I due baroni di Rocca Azzurra va in scena al teatro Valle di Roma in occasione del carnevale del 1783 con musica di D. Cimarosa e libretto adespota.
Dieci anni più tardi, nel 1793, a Napoli, G. Palomba firma il libretto1 di una commedia per musica titolata I due baroni, da rappresentarsi nel Reale Teatro del Fondo di Separazione per second’opera del corrente anno2.
In un avviso al cortese lettore3 l’autore dichiara di aver composto gl’intermezzi (sic) de’ Due Baroni son già più anni e di averli ora ridotti in commedia, non solo adornandola di alcune nuove scene e nuovi personaggi, ma soprattutto adattando il carattere del Baroncino al buffo napoletano. In effetti la parte risulta riscritta tutta in vernacolo partenopeo, molto fiorito e a tinte fortemente caricaturali.
Palomba aggiunge poi esplicitamente di avere collaborato anche per questa edizione rielaborata del vecchio testo degli Intermezzi con il rinomato maestro Cimarosa, che con sommo applauso già gli (sic) scrisse.
A lui si debbono tutte le aggiunte musicali e le varianti di alcune arie, rese necessarie per il comodo de i presenti Attori.
La titolatura dell’Intermezzo dichiarata nel frontespizio de I due Baroni di Rocca Azzurra compare invece nel manoscritto della partitura come Li due Baroni.
Il libretto consta di 48 pagine ed è posto in vendita, come indica il frontespizio, da Agostino Palombini, Libraro in Piazza Navona all’insegna di Sant’Anna, che ne è probabilmente anche lo stampatore.

 
Il libretto del 1783 (I-Nc, Rari: 8.15, 17)

Il libretto è articolato in due atti, il primo con 11 scene (10 + ultima), il secondo con 13 (12 + ultima).
La vicenda ruota tutta intorno all’imbroglio che due fratelli, Franchetto e Sandra, tessono ai danni di due ridicoli allocchi, don Demofonte e il Baroncino Totaro, zio e nipote, feudatari di Rocca Azzurra, per realizzare un loro ambizioso progetto: Sandra vuol diventare baronessa e Franchetto aspira alla mano di Madama Laura, sposa promessa per contratto a Totaro, ma mai da lui veduta. Giunto a Rocca Azzurra come ambasciatore di Madama, Franchetto mostra a Totaro il ritratto di Sandra, dichiarando che si tratta di Laura.
Totaro è entusiasta di quella che crede la fidanzata ed è pronto alle nozze, quando sopraggiunge la vera sposa.

Sagra dell’oca di Mortara
Fotografia di Palazzi Sergio

Don Demofonte e Baron Totaro sono presi in un vortice di equivoci ed escogitano vari sistemi per arrivare a scoprire quale delle due donne sia l’impostora, ma Franchetto sventa sempre con astuzia i loro tentativi, ora mandando a vuoto la prova delle calligrafie (fornisce a Sandra un autografo di Laura da esibire), ora convincendo Sandra a travestirsi prima da indovina egizia e poi da maga Alcina, per impressionare e spaventare i due bersagli della beffa e condurla così alla conclusione sperata.
Laura però non demorde e pur di provare la sua identità assume i medesimi travestimenti di Sandra, esasperando così il gioco degli scambi di persona.
La scioglimento si avrà solo quando Franchetto, vistosi ormai sfuggir di mano il bandolo della matassa che credeva di poter gestire con successo, confessa il suo inganno.
La punizione di Franchetto consisterà nel vedere Madama Laura convolare a giuste nozze con Totaro e Sandra andare sposa a Don Demofonte, restando l’unico, ahimè, a bocca asciutta.

 
Il libretto del 1793 a confronto con l’intermezzo

Il libretto del 1793 della Commedia per Musica Li due Baroni in due atti, il primo di 13 scene, il secondo di 14, tratto dal Palomba da quello del suo Intermezzo di 10 anni prima, è decisamente meno stuzzicante del primo e in un certo senso, più convenzionale.
Ciò è dovuto non tanto ai marginali e tutto sommato modesti aggiustamenti dell’impianto generale del lavoro, ma al diverso spirito con cui la Commedia è stata concepita.
Tutto l’interesse si concentra adesso sul Buffo, maschera cara al pubblico napoletano, il divertente e straripante Baroncino Totaro, bersaglio di beffe cui si espone indifeso per via della sua dabbenaggine megalomane e supponente.
Gli equivoci e i colpi di scena non sono più lo spiraglio aperto a lasciare intravedere quell’idra dalle molte teste che gli uomini si ostinano a credere una, e a cui danno il nome di verità: sono lo spasso offerto al pubblico perché possa godere delle corbellerie dette e fatte da Totaro, quando un giovane astuto lo prende nella sua rete.
Per complicare la trama alcuni caratteri vengono sdoppiati: Franchetto con la spalla Matusio, Sandra con la serva confidente Giulietta.
Ciò va a vantaggio dell’intrigo, ma non dell’essenzialità dell’azione.
Si ha talvolta l’impressione del déjà vu, della ripetizione dall’effetto pirotecnico ma artificioso, dell’ennesima imbeccata offerta a Totaro per snocciolare il repertorio delle sue coloratissime gag.
È rimasto il gusto per i giochi di parole e per i fraintendimenti lessicali, senza però che essi rimandino ad altro che a se stessi: sono scoppiettanti fuochi di artificio che si accendono in un lampo e in un lampo si spengono senza quasi lasciare traccia.

 
Conclusione

L’Intermezzo ha una struttura a increspatura d’onda: si sviluppa per tenui cerchi concentrici, che si dilatano progressivamente come divertite variazioni dello stesso tema, per moltiplicazione inarrestabile.
È una partita giocata con leggerezza tutta settecentesca, iniziata fuori del tempo scenico, con un contratto di matrimonio e un ritratto di dama.
L’atmosfera è quella della mascherata spiritosa che sconcerta e depista, maliziosa quel tanto da intrigare lo spettatore senza per altro destare in lui l’inquietudine che suole accompagnare l’apparizione del doppio.
Si intreccia infatti nell’Intermezzo una sorta di complicità con il pubblico che, messo puntualmente a parte in anticipo di tutte le false identità che vedrà sulla scena, gode della frastornata dabbenaggine dei malcapitati baroni, gli unici a cui non è dato di capirci niente nel caos dei travestimenti.

Palomba conduce l’imbroglio allo scioglimento finale con la mano garbata di chi si affida a un repertorio ampiamente collaudato di equivoci e di scambi di persona ma sa giocarlo per quello che vale, puntando sul ritmo della moltiplicazione esponenziale della verità messa a disposizione degli ignari bersagli dell’intrigo.
«La vita è un fanciullo che gioca a spostare i pezzi su una scacchiera», diceva Eraclito4: se è così, non conviene porsi domande sull’avventura umana.
Ma questo non è discorso adatto a uno spettacolo di Carnevale: meglio le zingare esotiche, le maghe con un frustulo di nobiltà letteraria nel nome e i casini infestati dagli spiriti, a popolare un bel mondo di cartapesta.

Notes:

  1. In Archivio del Reale Collegio di Napoli.
  2. Dal frontespizio del libretto.
  3. P. 3 del libretto a stampa.
  4. Ippolito: Confutationes, 9, 9, 4.